NON SEI MORTO PER ME

Non sei morto per me.

 

Durante uno dei bombardamenti di Sarajevo, Huso si affretta a rifugiarsi in cantina. Nel cortile vede il suo vicino Juri dondolarsi su un’altalena e gli urla:

– Juri! Qua ci rimani secco! Trovati un rifugio

finché sei in tempo!

– Cosa credi, non mi sto divertendo – risponde

Ivan – sto solo facendo diventar matto un cecchino serbo!

 

Barzelletta trasmessa su Kanal S nei giorni dell’assedio di Sarajevo

 

 

Prova a ricordare com’era il tuo volto prima di nascere. Non ti è possibile, vero? Allo stesso modo, io non riesco a ricordare come fosse la mia vita prima dell’inizio di questa guerra. Perche da noi, in una forma o in un’altra, la guerra esiste da quando esiste la vita.

Così rifletto mentre osservo mio figlio Srecko che, dopo essersi legato i capelli con l’elastico nero che di solito utilizza come braccialetto, prepara una sigaretta per sé e una per Ivan. In casa abbiamo una gran quantità di tabacco, razziata i giorni successivi agli scontri che hanno distrutto la Marlboro in città. I miei figli se ne erano riempite le tasche, le mani e poi tutti gli zaini e le buste gialle e verdi dell’emporio. Però mancano le cartine, così Srecko rolla le sigarette con ritagli di giornale o con le pagine dei suoi vecchi libri di fisica.

Non troverete su queste sigarette alcun severo monito sui rischi per la salute, ma potrete ripassare i principi dell’endotermica o conoscere la cifra approssimativa delle donne stuprate tra le macerie dello studentato nell’ultimo autunno.

C’è chi racconta che se le sigarette fossero mancate completamente la nostra città si sarebbe arresa già ai primi giorni di febbraio.

Victor non fumava, ma ha resistito fino alla fine.

– Questi sono gli ultimi sei. Noi siamo quattro. Come li dividiamo, mamma?

– Uno per te, uno per Liebe, due per Ivan e due per me.

Sul palmo della mano ho i proiettili toccati a me. Scelgo quale sparerò per ultimo. I miei figli sono intenti a sistemare le loro armi sul tavolaccio della cucina mentre io, lentamente, porto un proiettile alla bocca.

L’ultimo sarai tu.

Questo proiettile sarà l’ultimo salmo intonato al maledetto corteo funebre che stiamo conducendo da quattro giorni.

Bacio il proiettile e chiudo gli occhi. Sento la consueta partitura di rumori metallici che le nervose mani dei miei figli eseguono montando, smontando, pulendo e rimontando le loro armi.

Mani delle mie mani.

Quelle mani che aprirono con forza il portone arrugginito di casa nostra il giorno che i quattro attori vennero a bussare a casa nostra, sotto schizzi di pioggia chimica. Sotto ai cappottacci buttati sulle spalle indossavano ancora gli abiti di scena neri e rossi. Erano scuri in volto. Una donna aspettava in piedi, distante, sulla strada bagnata. Il trucco lacrimato via svelava una lunga cicatrice che le attraversava due labbra rosse e sottili.

I miei figli puliscono con un panno di feltro e del fil di ferro l’interno della canna delle loro armi a fondo e con una forza che è la mia forza. Quella forza che impiegai un giorno e una notte intera per cancellare la cupa striscia del sangue di Victor dal nostro cortile. Gli attori avevano obbedito alle sue ultime volontà:

Riportatemi da mia moglie.

Le curve nere tracciate sulla pietra dal suo sangue rappreso erano ampie come i seni del fiume Miljacka.

A due passi dal ponte che dominava quel fiume, Victor, senza alcuna divisa, aveva difeso il Teatro Nazionale.

Dal lunedì al venerdì, ogni sera, dopo il tramonto, una piccola compagnia di attori si ostinava a mettere in scena La Morte e la Fanciulla. Il sabato mattina gli attori sarebbero dovuti ripartire alla svelta, con quel po’ che avevano racimolato. Dovevano lasciare il palco pulito e in ordine perché il sabato il Teatro Nazionale ospita le esecuzioni pubbliche degli oppositori politici. La domenica, invece, è utilizzato per la proiezione collettiva della trasmissione Kanal S: un talk show all’occidentale condotto dal brillante Mlado Petric, fedelissimo del presidente Tudjman.

Ricordo una delle peggiori gaffe del brillante Petric: le immagini mostrano i corpi di cinque nostri fratelli croati fatti a pezzi come cani. Domani la commissione per l’identificazione si metterà al lavoro. Come faceva un giornalista a sapere che quelle vittime erano croate se l’identificazione sarebbe avvenuta il giorno seguente?

Mira al giallo, mira al rosso, mira al giallo, mira al giallo… bang bang bang, brava!

Ricordo il petto nudo di Victor contro la mia schiena, e il suo braccio magro, scuro, innervato che mi guidava nel prendere la mira, dopo avermi illustrato con dolcezza come impugnare un Fn-Fal, l’inclinazione che doveva assumere il mio collo, i muscoli che potevo tenere rilassati e la gamba che, invece, andava inchiodata a terra.

Nel caso tu sia a casa con i ragazzi, quando io non ci sono, e arrivi brutta gente.

Sparavamo alla facciata anteriore di Disneyland, come era soprannominata la vecchia casa di riposo per anziani dove nonno Dragan aveva trascorso i suoi ultimi giorni, un trionfo di kitsch totalitario dai chiassosi colori del socialismo reale.

Mira al rosso, mira al giallo, mira al rosso, mira al giallo… bang bang bang, brava.

Nonno Dragan diceva che la rivoluzione era il parto cesareo di un mondo migliore.

Per ora io ho visto solo aborti.

Mira al rosso, mira al giallo, bang bang bang!

 

 

Srecko continua a rollare sigarette. Il suo viso è liscio come il vetro, lustrato dal dolore, levigato e luccicante. Liebe lo aiuta ad appendere un suo quadro dipinto pochi giorni fa. La sua piccola personale alla galleria Sutjesca, vicino alla caserma, a metà dello scorso dicembre, hanno avuto un gran successo. Questo iniettato nella malinconia di mio figlio, finalmente, la luce di un po’ di fiducia in sé stesso e nella propria arte. Da allora, ogni giorno, Srecko passa almeno sei o sette ore a dipingere. Divora i cataloghi d’arte contemporanea, adora Warhol e Giger, frequenta un circolo di artisti anarcoidi. Non saprò mai se mio figlio Srecko sia un artista infettato dal buio fino alla radice, un sadico con talento d’artista o, semplicemente, un ragazzo disperato che combatte, come tutti noi, una guerra ormai solo personale. In ogni caso, la sua mostra fu un trionfo. La madre di Lena, invidiosa di tanto successo, ha detto che la gente è accorsa numerosa solo perché si era sparsa la voce che offrivamo tazze di tè caldo ai visitatori. Quel tè, effettivamente, è stato un piccolo ma piacevole evento, in un inverno interminabile, gelido e immobile, che non ci ha mai concesso il sollievo di un sorso di sole.

Tranne in un’occasione.

Mentre tutto moriva o sparava o entrambe le cose, nel Teatro Nazionale andava in scena, per cinque giorni di fila, La Morte e la Fanciulla che tratta dei desaparecidos. La bellezza dell’attrice dalle labbra sottili che interpretava il personaggio di Pauline aveva fatto chiudere un occhio alle autorità sulle possibili implicazioni di quelle denunce. E poi, in fondo, erano solo cinque giorni.

Victor difendeva il Teatro Nazionale.

Victor fu ucciso il quinto giorno.

Era un pomeriggio totalmente di sole.

L’ideale per un cecchino.

Victor voleva essere cremato, lo aveva ribadito tante volte. Noi lo abbiamo fatto cremare, gliel’avevamo promesso.

Non voleva né pope né preti né mullah.

Non voleva medaglie, non ne avrebbe mai avute. Lui difendeva il Teatro Nazionale di Sarajevo.

I pirati lasciano che le proprie ceneri siano gettate in mare, noi abbiamo scelto per lui un diverso ultimo approdo.

Siamo pronti per l’ultima battuta di caccia. La notte ha sempre lo stesso colore, sempre lo stesso rosso Sarajevo.

Senza le luci elettriche, solo qualche soros sulle colline, fiamme e fuochi sparsi macchiano leggermente il cielo. A volte un razzo di segnalazione o un proiettile tracciante prende il posto delle lucciole per rischiarare due o tre attimi di tenebra.

Prende il posto delle lucciole che da piccoli ammiravamo nell’orto di nonno Dragan.

Ivan è l’unico dei miei figli che sa montare una pistola da zero, cambiarne il tamburo e migliorarne le prestazioni con vari trucchetti. Ha una grande passione sia per la meccanica che per l’elettronica. Pochi mesi dopo che gli avevano regalato il baracchino conobbe Nina, una ragazza di Zara dalla voce sempre sfrigolante per le interferenze dell’apparecchio con il quale la ascoltava. Per anni, ogni sera, si stringe la testa tra due grosse cuffie nere e e vive la sua stagione d’amore in onde medie.

Quando mi riportarono l’urna con le ceneri di Victor, erano in due: uno con la divisa verde scuro, il fucile a tracolla e un ciuffo di documenti in carta bollata che fuoriusciva spiegazzato dalla tasca; l’altro col cappello in mano, rasato, e con alcune cifre tatuate all’altezza delle tempie. Poggiai l’urna sul tavolo. Liscia, scura, piccola, asettica, muta.

Incredibile pensare che un’intera vita, una vita come quella di Victor, sia ridotta così.

 Loro andarono via, io mi sedetti nella morbida luce del primo pomeriggio. Fissavo quell’urna come a volerla guardare negli occhi, con aria di sfida poggiando il mento sul tavolo.

Liscia, scura, piccola, asettica, muta.

I miei ragazzi erano in piedi agli angoli della stanza. Ivan tremava, io versai solo qualche lacrima.

Perché eri lì a morire davanti al Teatro Nazionale?

A notte inoltrata mi alzai dal tavolo. Il viso dei miei figli era spettralmente bagnato dalle scarne luci di fuori.

Prendemmo la decisione.

L’arma di mio marito era un Ak47. I proiettili di un Ak47 erano compatibili con i Rata semiautomatici di Srecko e Liebe e con la rivoltella Usta di Ivan.

Svitato con interminabile lentezza il coperchio dell’urna con le ceneri di Victor, i miei figli iniziarono ad aprire i bossoli, tenendoli fermi con le pinze e facendo dolcemente leva sull’incastro a metà con un piccolo coltello da campo. Dolcemente, affinché si potessero poi richiudere alla perfezione.

Imboccavo quei proiettili con lo stesso amore con il quale tanti anni prima avevo imboccato Ivan, il mio piccolo Pierrot appena nato, adagiato tra le mie braccia con i suoi liquidi occhioni azzurri, durante gli ultimi giorni di pace.

Imboccavo quei proiettili con lo stesso amore con il quale versavo lo zucchero nel buio del caffè mentre Victor mi cingeva il seno nudo, afferrandomi alle spalle nel pigro tepore del mattino. Amanti persi in una camera nella città vecchia di Split, dove si respirava la luce dell’Adriatico.

Con lo stesso identico amore, versai con cura ogni singolo cucchiaino con le ceneri di Victor nei proiettili.

Ottenni diciannove proiettili.

Neanche un solo granello andò perso.

Neanche un solo granello delle ceneri del’uomo che amo.

Dell’uomo che ho deciso di amare oltre la morte.

Caricammo i fucili e le pistole. Il giovedì successivo scovammo tre serbi ubriachi davanti alla birreria di Verb e li facemmo secchi.

La tua morte, Victor, mieterà diciannove morti. Il tuo cadavere, Victor, scorrerà in diciannove cortei funebri. Diciannove proiettili gravidi dei tuoi resti voleranno a spezzare diciannove cuori. E niente più. La tua Annika ti ama.

La tua famiglia ti ama.

Non mancheremo un colpo.

Quel venerdì vidi un gruppo dei nostri partigiani assalire una camionetta di serbi, ucciderne qualcuno, farne prigionieri altri. Quello che sembrava dare ordini lo riconobbi, aveva delle cifre tatuate sulle tempie. Anche lui ci riconobbe e, dopo una lunga discussione, accettò di portare al campo cinque prigionieri di meno.

Bang bang bang bang bang, bravi ragazzi, brava mamma, siamo a tredici.

Sì, oggi siamo a tredici. Ci rimangono sei proiettili, fino ad ora non abbiamo mancato un colpo. Prima che sorga il sole, voglio che questo lungo, troppo lungo funerale, si concluda.

Il Teatro ha una facciata anteriore con un maestoso portone, colonne a spirale e un maestoso rosone qualche metro più in alto. I vetri colorati formano lo stemma della casata dei Kormavic, e gli conferiscono una solenne aria da chiesa gotico-romanica. All’interno, un parquet come una bocca cariata, e un salone ampio e gelido.

Le travi di legno del soffitto s’incrociano tra loro per poi perdersi nelle complesse volute che offrono un’acustica decente. Solo una decina di persone a serata, ma la rappresentazione de La Morte e la Fanciulla era proseguita fino al quinto giorno.

Tu difendevi il Teatro Nazionale, Victor, ma il tuo posto era nel mio letto.

 

Nonno Dragan diceva che le deviazioni nel percorso degli scarabei indichino un aumento nella violenza della natura. Se così fosse, stanotte Sarajevo dovrebbe essere ricoperta di scarabei impazziti.

La ruota della bicicletta continua a girare per qualche altro istante, mentre noi siamo immobili, con le orecchie tese.

Morto anche questo. Ora ce ne rimangono cinque.

Aveva un viso che pareva tutto raggrumato attorno al naso.

Nello stesso istante in cui ha incrociato il mio sguardo, Liebe gli aveva già centrato il collo.

Attraversiamo il vecchio parcheggio, tempestato di lattine schiacciate.

Quei tre sono di spalle, stanno alzando infastiditi una saracinesca incastrata.

É quasi l’alba.

Uno.

Due.

E tre.

.

Srecko trema ma i bersagli sono facili. Dovrebbe fumare di meno, avrebbe i nervi più saldi.

Fissa come ipnotizzato la saracinesca schizzata di sangue e i piccoli brandelli di carne e capelli probabilmente. Non voglio pensare a quale ispirazione artistica lui stia traendo da questo orrore.

Un silenzio come se l’intera città stesse trattenendo il respiro.

Tra due piccoli edifici, panni stesi come gabbiani.

Poi, una raffica di mitra, un lampo di sangue nell’aria e la mano di Srecko strappata dal polso, vola a terra come una colomba ferita a morte. Urlando, il soldato si precipita verso di noi continuando a sparare. Io lo centro immediatamente al viso, Liebe gli fa esplodere il petto in contemporanea. L’urlo gli muore in gola mentre con un tonfo precipita sulla breccia all’unisono con Srecko che rovina a terra con il volto lacerato da una muta smorfia di dolore.

Il suo corpo magro ossuto, i suoi capelli neri crollati sulla fronte.

– Fa male, madre! Che cazzo mi hai fatto fare, madre! Io non voglio fare il macellaio! Io voglio essere il nuovo Basquiat. Guarda come cazzo sono ridotto adesso. Guardami, senza la mano! Che cazzo di futuro ci stai offrendo, madre? Questa è la tua vendetta personale noi non c’entriamo un cazzo!

La sua voce era come una spugna imbevuta di alcool e lacrime.

Liebe e Ivan si gettano su di lui per arrestare l’emorragia con un brandello di stoffa strappato da non so dove. Rimane solo il mio ultimo proiettile, ma le cose iniziano a mettersi male.

La nostra eroica vendetta è ormai sporca di tragico e di ridicolo.

I miei figli mi strillano di correre via.

Dei vetri scricchiolano sotto i miei anfibi.

Anche la mia gola, il mio stomaco… è come se fossero colmi di pezzi di vetro.

L’aria è tinta di polvere da sparo.

L’ultimo proiettile con le ceneri di Victor è nel mio fucile.

Victor, perché difendevi il Teatro Nazionale? Il tuo posto era nel mio letto.

Accenno a seguirli, poi lascio proseguire i miei figli oltre l’Elektropriveda, in direzione della nostra casa sulla collina.

Mi volto e mio dirigo verso il Teatro Nazionale.

Nell’aria si diffonde un buon odore di pane, i fornai sono tornati al lavoro.

È meglio che i miei figli non sappiano la verità.

È meglio che ricordino il padre come un eroe.

Victor, tu difendevi il Teatro Nazionale ma il tuo posto era nel mio letto. Guarda come ci ha lasciati.

È l’alba, non mi rimane che uccidere l’attrice.

L’ultimo proiettile è per lei.

Se invece di difendere il Teatro Nazionale fossi rimasto nel mio letto, ora saresti vivo. Srecko avrebbe ancora la sua mano e io avrei insegnato ai nostri figli a leggere e scrivere invece che a sparare alle spalle.

Se tu fossi rimasto nel mio letto, ma l’amore per quella donna ti ha dato il coraggio di esporti al fuoco dei cecchini per cinque giorni d’inferno.

So bene che non sei un eroe, so bene che non sei un martire del Teatro Nazionale, so bene che non sei morto per difendere arte e cultura.

La tua era solo una sporca questione privata.

Così come la mia non è un’eroica vendetta ma solo un’altra sporca questione privata messa in scena sul palco di questa infinita tragedia il cui copione non prevede eroi.

Solo gente che muore o che spara. O entrambe le cose.

Io e te non abbiamo fatto nulla di eroico.

Solo questioni private.

L’ultimo proiettile è per quella puttana.

Riposerai dentro di lei.

Riposerai nel suo grembo.

Nel mio letto non c’è più posto per te.

Addio, Victor.

Addio.